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Un virus più contagioso alla base della seconda ondata. La variante inglese e le conseguenze sui vaccini

19 Dicembre 2020  LINK PAGINA
La mutazione apparsa a febbraio in Europa del Sud ha reso il coronavirus molto più trasmissibile. E la nuova versione D614G ha alimentato la corsa dei contagi nel mondo. Oggi Londra scopre un'ulteriore variante. È molto vicina alla proteina spike contro cui sono mirati i vaccini. Anche il Sudafrica scopre una nuova versione di Sars-Cov-2 Con 74 milioni di contagi sulle spalle, il coronavirus ha cambiato volto. Poco, per fortuna. Ma chi ne ha guardato i più minuti dettagli sa quanto una mutazione, per quanto piccola, possa cambiare le carte in tavola con la pandemia. Mentre la Gran Bretagna si allarma per l’emergere di una nuova variante di Sars-Cov-2, il gruppo di Ralph Baric all’università del North Carolina, uno dei più grandi esperti di coronavirus, ha spiegato perché la mutazione D614G che ha conquistato il mondo durante questa seconda ondata è riuscita a inserire una marcia tanto alta.

È bastato che nel genoma di Sars-Cov-2 cambiasse uno dei 30mila nucleotidi, dei mattoni che lo compongono, perché nascesse la variante D614G. E perché, scrive Baric quasi contemporaneamente su Science e sul New England Journal of Medicine, il virus “identificato in febbraio in Europa meridionale si diffondesse rapidamente e diventasse prevalente nel mondo”. Per confermare quelle che potrebbero sembrare coincidenzel’epidemia più severa in Italia in primavera, proprio nel luogo e nel momento in cui D614G è comparsa, e i numeri assai più grandi della seconda ondata rispetto alla prima – Baric ha preso un coronavirus, gli ha fatto acquisire la mutazione e ha misurato la sua capacità di replicazione con un esperimento in tre fasi.

In provetta, su vari tipi di cellule del tessuto respiratorio umano, il virus mutato si è replicato e ha raggiunto quantità fino a 8 volte superiori rispetto al virus originario, quello comparso a Wuhan. Anche quando il virus originario è stato messo a contatto con le cellule in quantità dieci volte superiore rispetto al virus mutato, quest’ultimo in pochi giorni ha preso il sopravvento, conquistando l’intera coltura. Su criceti e topi usati come cavie, infine, la versione D614G è stata capace di diffondersi di più e prima nelle mucose del naso, il “ponte di lancio” preferito del coronavirus per contagiare gli altri. Rispetto al virus originario, D614G è capace di contagiare precocemente (appena due giorni dopo l’infezione, nelle cavie) e con dosi più basse.

“I nostri esperimenti dimostrano – scrive Baric – che la variante D614G si trasmette in modo significativamente più rapido nei criceti attraverso goccioline e aerosol”. La mutazione provoca “un aumento di infettività e di capacità di trasmissione anche nella popolazione umana”. La gravità dei sintomi è uguale o “marginalmente superiore” per il virus mutato, almeno per quel che gli scienziati hanno osservato nelle cavie. Anche negli uomini, comunque, D614G provoca “cariche virali più alte”. E con una maggior quantità di microrganismo nel naso è più facile contagiare chi ci sta vicino. Anche se più efficiente nel contagiare, il virus mutato non è più agile nello sfuggire ai nostri anticorpi. “Anche i vaccini allo studio diretti contro la spike dovrebbero essere efficaci contro la variante D614G”, quella della scorsa primavera, scrive Baric.

Non è detto però che possa andare sempre bene, nella roulette russa delle nuove mutazioni. Ed è qui che l’allarme sollevato in Gran Bretagna è giustificato. “Nonostante un sistema di correzione delle bozze che rende il genoma del virus molto fedele”, le mutazioni emergeranno sempre, scrive Baric. Man mano che sempre più persone saranno immunizzate, è possibile che una nuova variante capace di sfuggire agli anticorpi generati dal vaccino emerga e prenda il .sopravvento E’ importante – raccomandano i ricercatori americani – identificare subito l’emergere di nuove varianti, soprattutto nel momento in cui l’immunità di gregge o altri interventi attivi da parte dell’uomo altereranno le pressioni selettive sul genoma del virus”.


È ancora presto per capire che caratteristiche avrà la variante inglese. Ma i ricercatori sono preoccupati. In uno studio preliminare di varie università britanniche, si fa notare che il nuovo ceppo, battezzato B.1.1.7, è stato osservato la prima volta il 20 settembre nel Kent e da allora ha moltiplicato le sue apparizioni, arrivando oggi a 1.623 campioni, di cui 519 a Londra, 555 nel Kent, 545 in altre regioni del Regno Uniti e 4 all’estero, “con una proporzione di casi in aumento”. I ricercatori hanno notato nel nuovo ceppo “un numero sorprendentemente grande di cambiamenti genetici, specialmente nella proteina spike”. Che è quella contro cui sono diretti i vaccini. “Tre di queste mutazioni hanno potenziali effetti biologici”. Che potrebbero ripercuotersi sulla capacità di infettare e di causare sintomi gravi. La variante N501Y potrebbe “aumentare l’affinità con il recettore Ace”. Quindi facilitare l’ingresso del virus nelle nostre cellule. “La delezione 69-70 del è stata descritta nel contesto della capacità di evadere alla risposta immunitaria umana”. Potrebbe ostacolare il lavoro delle nostre difese. La mutazione P681H infine potrebbe avere effetti biologici che però non sono ancora precisati.

Alla preoccupazione inglese, infine, si aggiunge quella del Sudafrica. "I nostri scienziati hanno annunciato che una nuova variante chiamata 501.V2 è stata identificata nel nostro paese" ha detto venerdì il ministro della Salute Zweli Mkhize. "Le evidenze raccolte suggeriscono con forza che la seconda ondata in corso sia alimentata da questa nuova variante".

 

 

Coronavirus. Perché la mutazione dominante chiamata «D614G» non renderà obsoleto il vaccino

I ricercatori continuano a monitorare le mutazioni del virus, ma nessuna lo ha reso più forte

La rivista scientifica Cell rende disponibile online un articolo pre-proof – dunque la versione preliminare e già sottoposta a peer review – di una ricerca riguardante una mutazione apparentemente dominante del nuovo Coronavirus, che determina la glicoproteina Spike (S), ovvero il principale antigene bersaglio del nostro Sistema immunitario, della corsa al vaccino e al farmaco, per trattare o prevenire le forme più gravi della Covid-19.

L’eventualità che una mutazione possa rendere vani gli sforzi per la produzione di vaccini e terapie adeguate, non è mai stata presa sotto gamba. C’è da dire però, che questa come altre importanti ricerche volte a monitorare i ceppi di SARS-CoV2 isolati nel Mondo, non evidenziano la tendenza del virus a diventare più pericoloso, né si nota il concreto pericolo di arrivare alla fine dei livelli più avanzati della sperimentazione con delle armi obsolete. In questo articolo chiariremo meglio il perché.

È mutato il principale bersaglio dei vaccini?

Diversamente dalle tesi complottiste riguardo all’impossibilità di trovare un vaccino per via della mutevolezza del virus, che partivano da impostazioni superficiali, le quali non tenevano conto delle mutazioni riguardanti l’antigene del SARS-CoV2, molti ricercatori hanno monitorato questa eventualità, attraverso studi seri. 

LaBrance, Montefiori e Korber, cofirmatari della ricerca apparsa su Cell, avevano suscitato preoccupazione già il 30 aprile scorso, quando lo studio era ancora in attesa di revisione. Il team avvalendosi dei dati sulla filogenesi del virus, presenti nei database internazionali GISAID e Nextrain, aveva individuato una mutazione della proteina Spike, a partire dal ceppo di riferimento isolato a Wuhan.

La variante in questione è la G614, divenuta presto dominante in Europa e altre parti del Mondo, rispetto alla D614. Negli studi che trattano l’argomento si parla più in generale della «mutazione D614G». Fin dalla prima stesura dell’articolo, sono circolate interpretazioni che nulla hanno a che fare coi risultati ottenuti.

Se la preoccupazione principale riguarda invece l’eventualità che il virus abbia mutato la proteina Spike, al punto da non poter essere riconosciuto come bersaglio del Sistema immunitario, una risposta confortante ci arriva dal professor Enrico Bucci, biologo e professore alla Temple University di Filadelfia, il quale ha commentato lo studio di Cell nella sua Pagina Facebook:

«Questa mutazione interessa una zona della proteina Spike che non è quella di maggior interesse immunogeno per i vaccini, vale a dire la regione RBD, contro cui sono diretti la maggior parte dei vaccini in sviluppo».

Un virus più infettivo ma non necessariamente più pericoloso

Più precisamente qui il problema reale è capire quanto la mutazione dell’antigene possa permettergli di essere più infettivo, legandosi maggiormente ai recettori ACE2 per infettare le cellule. Come spiegano gli stessi ricercatori infatti, viene suggerita una maggiore infettività; ma aggiungono che infettivo non significa più virulento, e non è detto nemmeno che sia sempre sinonimo di maggiore trasmissibilità. 

I ricercatori citano anche le precedenti epidemie di SARS e MERS: la prima ha fatto registrare ottomila casi, con una mortalità del 10%; la seconda ha riguardato poco più di duemila casi, ma la mortalità era tre volte più alta. I dati riguardo alla Covid-19 sono ancora in divenire, ma è interessante riportare quanto osservato attraverso i due database a disposizione dei ricercatori.

Nel momento in cui redigevano l’articolo, ad un totale 8,7 milioni di casi corrispondevano 460mila vittime, con una mortalità che variava da diverse zone del Mondo tra il 3,3% e il 14,5%, mentre l’Indice di riproduzione di base del virus, che abbiamo imparato chiamarsi R0, oscillava tra il 2,2 e il 3,9%. Leggiamo alcuni estratti presi dallo studio:

«La diversità delle sequenze è molto bassa … Tuttavia, la selezione naturale può agire su una mutazione rara ma favorevole … La persistenza della pandemia può consentire l’accumulo di mutazioni immunologicamente rilevanti nella popolazione anche quando si sviluppano i vaccini».

«Nell’involucro dell’HIV, si sa che i cambiamenti di singoli aminoacidi alterano la suscettibilità della specie ospite, aumentano i livelli di espressione, cambiano il fenotipo virale dal livello 2 al livello 1, causando un cambiamento complessivo nella sensibilità di neutralizzazione … e conferendo resistenza totale o quasi completa a classi di anticorpi neutralizzanti».

«Non abbiamo trovato alcuna associazione significativa tra [la mutazione] D614G e la gravità della malattia misurata dagli esiti del ricovero in ospedale … L’analisi di regressione ha rafforzato il risultato in base al quale [la variante] G614 non era associata a maggiori livelli di ricovero in ospedaleLa carica virale non mascherava un potenziale effetto sullo stato di D614G in ricovero in ospedale … [ma vi sono] associazioni tra età, sesso maschile e ricovero».

Quindi, se la variante individuata ha avuto un vantaggio evolutivo, questo riguarderebbe l’infettività, non una maggiore pericolosità. Pertanto, anche se ci sono ragioni per temere l’eventualità di mutazioni che rendano più difficile combattere il Coronavirus, al momento non sembrano esserci evidenze. 

Precedenti indizi nella letteratura scientifica recente

Se volgiamo lo sguardo dal principale antigene del virus direttamente alle mutazioni del suo genoma, abbiamo indizi che suggeriscono l’esistenza di due tipi differenti di SARS-CoV2. Possiamo trovarli già in uno studio cinese apparso sulla National Science Review nel marzo scorso, dove si suggeriva la presenza di un «tipo L» più aggressivo e prevalente, contrapposto a un «tipo S», divenuto dominante e meno pericoloso. 

Prima ancora The Lancet suggeriva nel gennaio scorso che SARS-CoV2 sarebbe potuto apparire prima ancora del focolaio di Wuhan, probabilmente già nel novembre 2019. Il 20 maggio 2020 un altro studio individua due lignaggi principali, evolutisi da un antenato comune prima che scoppiasse il primo focolaio noto.

Al momento parliamo solo di studi limitati che necessiteranno conferme più robuste. Sappiamo per certo che questo virus non ci preoccupa solo per la trasmissibilità, ma anche perché non sappiamo con certezza come mai solo una parte dei pazienti sviluppa forme gravi, mentre esistono anche tanti asintomatici e presintomatici. La risposta a questa domanda si sposta dal virus alla reazione dell’Organismo, che differisce a seconda del paziente.

Parliamo di ricerche sulla immunità cellulare, e altri fattori che potrebbero rappresentare un boost nell’azione del virus. Sulla trasmissibilità invece, molto si può fare seguendo le indicazioni raccomandate dagli epidemiologi – che gli stessi Governi sono chiamati a divulgare all’opinione pubblica – per limitare le condizioni sociali che favoriscono il contagio.